In questa sezione troverete informazioni che riguardano alcune novità normative, alcune sentenze e decisioni di Tribunali, Corti di Appello e della Corte di Cassazione che presentano profili di particolare rilevanza.

LAVORO PRECARIO E TUTELA DEL LAVORATORE

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, N. 4943 DEL 2024

 

PUBBLICO IMPIEGO – Tutela del lavoratore precario – Esonero dall’onere probatorio del danno e del nesso causale – Contratti a termine nulli per mancanza di forma scritta – Danno comunitario – Stipulazione di un valido contratto di lavoro – Principio di effettività nella tutela del lavoro precario –Tutela meramente risarcitoria – Pagamento di un’indennità forfettaria – Indennità che prescinde dalla prova del danno – Possibilità di provare un danno maggiore.

 

La tutela del lavoratore precario nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, come sancita nella sentenza n. 5072/2016 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – e, in particolare, l’esonero dall’onere probatorio del danno e del nesso causale nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 – non vengono meno nel caso in cui i contratti di lavoro a termine siano nulli per mancanza di forma scritta ai sensi degli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440 del 1923, in quanto in mancanza di forma scritta si realizza anche la violazione delle norme sulla specificazione della causale o di certezza dell’assetto temporale del lavoro a termine che sono funzionali, nel diritto interno, all’esigenza antiabusiva di cui all’art. 5 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/79/CE.

Il c.d. «danno comunitario», infatti, nella misura forfettaria indicata dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 non presuppone la stipulazione di un valido contratto di lavoro, nel quale venga illegittimamente fissato un termine finale di durata, ma opera anche nel caso di nullità dello stesso contratto di lavoro. Le norme per la protezione del lavoro a tempo determinato contenute nel d.lgs. n. 368 del 2001 di attuazione della direttiva 1999/70/CE (così come quelle ora scritte nel d.lgs. 81 del 2015) si applicano anche ai rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni su tutto il territorio nazionale, comprese le ragioni a statuto speciale. Il fatto che un contratto di lavoro non sia stato stipulato «ai sensi del d.lgs. 368/2001» nulla toglie alla necessità di applicare le norme di legge imperative che disciplinano quel rapporto (Nel caso di specie il contratto era stato stipulato sulla base della legge regionale siciliana n. 16 del 1996).

Ciò posto, il risarcimento del c.d. «danno comunitario» rappresenta, sul piano giurisprudenziale, la realizzazione del principio di effettività nella tutela del lavoro precario, imposta dal diritto dell’Unione Europea, contemperandolo con la regola di diritto interno – e di rango costituzionale (art. 97, comma 4, Cost.) – per cui «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi previsti dalla legge». Tale regola impedisce di applicare ai dipendenti degli enti pubblici non economici la tutela – sicuramente adeguata sul piano della effettività e applicabile nel lavoro privato – della trasformazione del rapporto (illegittimamente) a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. L’alternativa tutela meramente risarcitoria rischia, invece, di non essere una tutela sufficientemente efficace (e, quindi, un’effettiva attuazione dei principi eurounitari), qualora governata dalle comuni norme sulla ripartizione degli oneri probatori, che impongono al lavoratore di allegare e provare in modo specifico il danno subito e il suo nesso causale con il rapporto di lavoro. Per questo, si è ritenuta misura doverosa, nel diritto interno, il riconoscimento al lavoratore, in caso di abusiva reiterazione di contratti a termine, del diritto al pagamento di un’indennità forfettaria, in misura variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, che prescinde dalla prova del danno, ferma restando la possibilità per il lavoratore di provare di avere subito un danno maggiore.

In mancanza di una previsione del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro avente ad oggetto il riconoscimento di un corrispettivo per la perdurante disponibilità del lavoratore a rendere la prestazione in qualsiasi momento, nel corso dell’anno solare, non è ravvisabile una violazione dell’art. 36 Cost., secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro». Invero, il fatto di poter essere chiamato, nel corso dell’anno, a seconda delle esigenze del datore di lavoro non comporta una prestazione di lavoro aggiuntiva (essendo una contraddizione in termini che questa possa consistere in un mero non facere), ma rappresenta soltanto una modalità in cui si estrinseca il rapporto.

REATO DI MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA E RECIPROCITA' DI OFFESE E VIOLENZE 

Cassazione Penale, Sez. 6,  Sentenza n. 4935 del 23/01/2019, dep. 31/01/2019, Rv. 274617-01

 

REATI CONTRO LA FAMIGLIA - DELITTI CONTRO L'ASSISTENZA FAMILIARE - MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA - ELEMENTO OGGETTIVO (MATERIALE) - Comportamento abitualmente vessatorio – Nozione – Offese e violenze reciproche – Reato – Configurabilità – Esclusione.

 

Secondo la Suprema Corte di Cassazione in tema di maltrattamenti in famiglia, integra gli estremi del reato la condotta di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un'altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità e intensità equivalenti.

 

Diffamazione a mezzo stampa - Critiche all’operato del pubblico ministero nel corso delle indagini giudiziarie (Cassazione Penale, Sez. 5, Ord. n. 5638/2015)

 

La Corte Suprema di Cassazione si è occupata di un caso giudiziario in cui un giornalista ha pubblicato su un quotidiano a diffusione nazionale degli articoli dal contenuto pretesamente offensivo della reputazione di un Pubblico Ministero titolare di un’indagine, contenente, in particolare, affermazioni idonee a far ritenere gravemente negligente il comportamento del magistrato inquirente e a presentare come solerte e preciso il lavoro della polizia, pigro e superficiale invece quello del p.m., sì da costituire un’oggettiva occasione di reiterazione del delitto.

La Corte ha affermato che l’esercizio del diritto di critica giudiziaria non deve trasmodare nel dileggio e nella gratuita attribuzione di malafede a chi conduce le indagini, avendo anche il magistrato del pubblico ministero diritto alla tutela della propria reputazione e alla intangibilità della propria sfera di onorabilità.

Afferma, al tempo stesso, la Corte che ogni provvedimento giudiziario può essere oggetto di critica anche aspra, purché questa non si risolva in un attacco alla stima di cui gode il soggetto criticato.

Nel caso di specie, la conclusione cui è pervenuta la Corte è stata quella di ritenere non esorbitante dal legittimo esercizio del diritto di critica la notizia riportata da un giornalista che, senza travisare i fatti nel loro nucleo essenziale, aveva censurato l’operato del pubblico ministero, che non aveva richiesto alcuna misura cautelare nei confronti di un uomo indagato per l’omicidio di una donna, il quale successivamente si era reso responsabile della morte della fidanzata.

In estrema sintesi, pur riconoscendosi alla critica una natura soggettiva e opinabile, è necessario, perché il giornalista possa essere considerato esente da responsabilità penale, che la notizia diffusa riguardi fatti di rilevanza sociale, descritti con una narrazione e con espressioni corrette e che, comunque, le critiche trovino riscontro in una corretta e veritiera riproduzione della realtà fattuale. Pertanto, non si può e, anzi, non si deve mai pervenire da parte del giornalista a una ricostruzione volontariamente distorta della realtà, preordinata esclusivamente ad attirare l’attenzione negativa dei lettori sulla persona criticata.

Solo a queste condizioni si può anche esprimere una polemica intensa su temi di rilevanza sociale, senza però attribuire gratuitamente mala fede a chi conduce le indagini giudiziarie, e salva restando comunque la possibilità di criticare ogni provvedimento giudiziario, anche aspramente, in ragione dell’opinabilità degli argomenti a sostegno, purché la critica non si risolva in un attacco alla reputazione e in una lesione alla stima di cui gode il soggetto criticato, penalmente illecite dovendo considerarsi quelle critiche virulente che comportino il dileggio dell’autore di un provvedimento giudiziario.

Nel caso di specie, come detto, è stato escluso il carattere diffamatorio degli articoli giornalistici, che, valutati nel loro portato complessivo, non contenevano travisamenti o alterazioni capziose del fatto.

Responsabilità civile dei magistrati

Se un cittadino avvia una causa di responsabilità civile nei confronti dello Stato, lamentando che la condotta professionale di un dato giudice in un giudizio che lo riguarda gli ha procurato un danno ingiusto, quello stesso giudice, in assenza di elementi ulteriori rispetto alla “pendenza della causa risarcitoria”, ad esempio di “grave inimicizia” o di “interesse personale e diretto nella causa” da parte dello stesso giudice, deve ritenersi capace di decidere in maniera imparziale un eventuale altro giudizio che riguarda lo stesso cittadino, senza che ricorra un’ipotesi di astensione o ricusazione come per legge.

Anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege 117/1988 , si deve escludere che si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima. Infatti, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui viene riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità di debitore della parte privata.

Cassazione Civile, Sez. U, Ordinanza n. 13018 del 23/06/2015 

PROCEDIMENTO CIVILE – RICUSAZIONE E ASTENSIONE DEL GIUDICE – GIUDIZIO DI RESPONSABILITÀ AI SENSI DELLA LEGGE N. 117 DEL 1988 (RESPONSABILITÀ CIVILE DEI MAGISTRATI) – RILEVANZA – ESCLUSIONE

 

In tema di ricusazione del giudice, non è "causa pendente" tra ricusato e ricusante, ai sensi dell'art. 51, n. 3, cod. proc. civ., il giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, atteso che il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n. 18, nei soli confronti dello Stato.

GIUDIZIO PENALE - Riesame e diritto al contraddittorio

Il giudice del riesame decide anche sulla base degli elementi addotti dalle parti nel corso dell'udienza, assicurando il contraddittorio sul contenuto indiziario e sul fondamento dei presupposti cautelari, nel rispetto del diritto di difesa dell'indagato, sicché il soggetto interessato deve essere posto nelle condizioni di difendersi concretamente attraverso la conoscenza degli atti. Tale conoscenza è assicurata dalla possibilità che è riconosciuta al difensore di esaminare gli atti depositati nella cancelleria del giudice a quo e del giudice del riesame, funzionale alla sua partecipazione informata alla discussione davanti al tribunale.

Allora, la produzione di elementi a carico dell'indagato direttamente all'udienza incide sul diritto di difesa, configurando una causa di nullità ai sensi dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in relazione all'assistenza dell'indagato, in tutti i casi in cui questi non sia messo nelle condizioni di difendersi concretamente. In presenza di tali produzioni il tribunale del riesame deve assicurare il rispetto pieno del contraddittorio tra le parti, assegnando all'indagato un congruo termine a difesa.

Cassazione Penale, Sez. 3, Sentenza n. 22137 del 6/05/2015

MISURE CAUTELARI REALI – RIESAME – DEPOSITO DI NUOVI ELEMENTI DI PROVA ALL'UDIENZA DA PARTE DEL PM  – TERMINE A DIFESA – MANCATA ASSEGNAZIONE – NULLITÀ

 

In tema di impugnazioni relative a misure cautelari reali, il pubblico ministero può introdurre all'udienza di riesame nuovi elementi probatori a carico, ma il tribunale, al fine di assicurare la piena applicazione del contraddittorio, deve assegnare all'indagato un congruo termine a difesa, in difetto del quale si configura un'ipotesi di nullità ex art. 178, lett. c), cod. proc. pen. in relazione all'assistenza del medesimo.

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