Le interdittive antimafia devono essere annullate dal giudice amministrativo, se illegittime; l'annullamento comporta la condanna della P.A. al risarcimento dei danni

Negli ultimi anni si sente sempre più parlare di interdittive antimafia adottate dall’amministrazione e rivolte a privati, ai quali viene sostanzialmente inibito di proseguire l’attività pubblica o privata svolta sino a quel momento, che risulti in qualche modo soggetta all’amministrazione (per comunicazione di avvio, controllo, autorizzazione o altro), sulla base di una valutazione altamente discrezionale di quest’ultima, che poggia sulla nota regola probatoria “del più probabile che non”, squisitamente indiziaria.

Infatti, secondo  una recente pronuncia del Tar Sicilia, Palermo (Sezione Prima, n. 392/2024), «ai fini dell’adozione dell’interdittiva occorre, da un lato, non già provare l’intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico latamente discrezionale – sia deducibile il pericolo di ingerenza da parte della criminalità organizzata; d’altro lato, detti elementi vanno considerati in modo unitario, e non atomistico, cosicché ciascuno di essi acquisti valenza nella sua connessione con gli altri (Cons. St., sez. III, 18 aprile 2018, n. 2343).

Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, “ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale” (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483)».

Ancora, chiarisce il Tar Sicilia, Palermo, «come ribadito dalla Sezione (27 dicembre 2019, n. 8883, riprendendo un ormai consolidato orientamento del giudice di appello), l’informazione antimafia implica una valutazione discrezionale da parte dell’autorità prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, capace di condizionare le scelte e gli indirizzi dell’impresa. Tale pericolo deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipico dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, appunto, il pericolo di infiltrazione mafiosa».

Ed infine, «ha aggiunto la Sezione (n. 8883 del 2019) che lo stesso legislatore – art. 84, comma 3, d.lgs. n. 159 del 2011 – ha riconosciuto quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di “eventuali tentativi” di infiltrazione mafiosa “tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate”. Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di questi ad influenzare la gestione dell’impresa sono nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzato, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori…” (Consiglio di Stato, Sez. III, 25 novembre 2021 n. 7890)».

Le ragioni che si trovano alla base di tali misure sono chiaramente di prevenzione e di lotta alla criminalità organizzata e sono state esplicitate nei disposti della legge n. 575/1965, nella legge n. 646/1982, nella legge n. 936/1982, nella legge n. 55/1990, nella legge delega n. 47/1994, nel d. lgs. 490/1994, nel D.P.R. n. 252/1998, nella legge n. 136/2010, e poi nel d. lgs. n. 159/2011 e ss. modifiche, tra le quali quelle di cui alla legge n. 161/2017.

I privati possono comunque impugnare tali interdittive innanzi al giudice amministrativo, rappresentando la violazione o la falsa applicazione delle norme contenute nelle leggi sopra citate o la loro illegittimità per eccesso di potere, se non per violazione di legge, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 21-octies della legge n. 241/1990, o la loro nullità nei casi di cui all’art. 21-septies della legge citata; non di rado, capita che le stesse vengano annullate in quanto illegittime e/o adottate in assenza di idonea motivazione, come nel caso di cui si dirà nel prosieguo della trattazione.

La decisione del CGA Regione Sicilia: discrezionalità ed errore scusabile

Orbene, va sottolineato subito che in tale materia l’amministrazione gode di ampia discrezionalità tecnica e di “potere” al punto che, secondo una recente pronuncia del CGA Regione Sicilia, tale peculiarità comporta anche il riconoscimento del beneficio dell’errore scusabile e dell’esclusione della colpa e della responsabilità dell’amministrazione, tutte le volte in cui le informazioni (id est, interdittive) antimafia siano astrattamente idonee a formulare un giudizio “plausibile” sul tentativo di infiltrazione mafiosa, sebbene poi vengano giudicate illegittime e annullate dal giudice amministrativo, in quanto si svelano in concreto insufficienti a giustificare tale conclusione e a legittimare la misura. 

In tal caso, dunque, non sussisterebbe alcuna colpa dell’amministrazione e, del pari, nessuna possibilità di risarcimento del danno subito dal privato che sia stato ingiustamente destinatario dell’interdittiva, dato che quest’ultima è fondata su valutazioni basate su meri indizi e necessariamente opinabili, mirandosi con essa a tutelare la società e l’ordine pubblico da un rischio e non dal pericolo concreto del condizionamento mafioso. 

Così, la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana del 28 marzo 2024, n. 233, ha così respinto la richiesta di risarcimento dei danni subiti per effetto di un’informazione antimafia interdittiva, poi annullata dal TAR in quanto illegittima. 

L’annullamento dell’interdittiva antimafia

L’interdittiva era stata emessa dall’amministrazione in quanto l’interessato aveva degli stretti legami di parentela con persone “pregiudicate” per reati di associazione di tipo mafioso. Secondo il TAR essa andava comunque annullata in quanto basata sul solo rapporto di parentela, pur stretto, con un soggetto “ritenuto” fiancheggiatore (e dunque, non componente effettivo dell’associazione mafiosa), comunque deceduto, oltre che con un altro individuo in atto detenuto.

In particolare, con sent. n. 1842 del 2016, il TAR Sicilia, Palermo, sebbene dapprima avesse respinto l’istanza cautelare dell’interessata, da atto che poi il Giudice d’Appello ha riformato il decisum cautelare in senso favorevole alla ricorrente, sulla base della “mancanza di documentati riscontri atti a confermare la reale sussistenza di concreti rapporti derivanti da tale parentela”, dei “prevalenti esiti non ostativi delle informazioni rese dalle forze di polizia” e della sostanziale “carenza di motivazione” dell’informativa.

Il Tar, poi, allineandosi espressamente ai percorsi motivazionali sinteticamente delineati dal C.G.A., afferma che l’informativa si basa sul solo rapporto di parentela, pur stretto, con un soggetto “ritenuto” fiancheggiatore (dunque non componente effettivo) della “locale famiglia stiddaria” e, comunque, deceduto nel 1997 e con un altro individuo in atto (ed in prospettiva, vista la pena a vita inflitta) detenuto. 

Chiarisce, altresì, che non sono stati enucleati, neppure sommariamente, gli specifici profili atti a lasciare presumere che siffatto vincolo parentale potesse tradursi in un effettivo, attuale e concreto condizionamento mafioso, sottolineando ancora che la motivazione del provvedimento avrebbe dovuto essere particolarmente puntuale e solida alla luce della considerazione del decesso di uno dei soggetti controindicati e della restrizione carceraria dell’altro, che, da un punto di vista oggettivo, vengono descritti come dati della realtà difficilmente conciliabili con l’ipotesi di una permeabilità mafiosa dell’impresa, in assenza dunque di “elementi ostativi” a carico dell’interessata.

I chiarimenti del CGA Regione Sicilia sul risarcimento dei danni in favore del privato

Il CGA, esprimendosi sull’interdittiva antimafia, ha precisato che l’adozione di quest’ultima obbedisce in fondo a una logica di anticipazione della soglia di difesa sociale e non postula, perciò, l’accertamento in sede penale di uno o più reati che attestino il collegamento o la contiguità dell’impresa con associazioni di tipo mafioso, potendo fondarsi sul solo rilievo di elementi sintomatici che dimostrino secondo il criterio sopra riferito il concreto pericolo (e non la certezza) di infiltrazioni della criminalità organizzata nell’attività imprenditoriale (Cons. St., sez. III, 1 settembre 2014, n. 4441; idem, Adunanza plenaria n. 3 del 2018).

Ancora, il CGA ha affermato che il paradigma legale di riferimento, codificato dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n. 159/2011, resta volutamente aperto e per così dire elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento circa l’esistenza di indici sintomatici di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso. 

Infatti, al contrario di quanto accade per l’attività provvedimentale di carattere generale della pubblica amministrazione, ancorata sui precetti di cui alla legge sul procedimento (legge n. 241/1990), l’informativa antimafia risulta configurata dallo stesso legislatore come fondata su valutazioni necessariamente opinabili, attinenti all’apprezzamento di rischi e non all’accertamento di fatti, e quindi non è ancorata alla verifica della ricorrenza di chiari presupposti di fatto e di diritto, costitutivi e regolativi della potestà esercitata dall’amministrazione. 

Ma, è proprio la funzione anticipatoria della soglia di contrasto alla criminalità organizzata che impedisce, secondo il CGA, la previsione di parametri di azione rigidi e determinati nella loro interezza e che impone la disciplina di tale potestà in termini semanticamente plurisignificanti, dovendosi impedire ad imprese che rischiano di essere condizionate dai clan mafiosi di accedere a rapporti contrattuali con le pubbliche amministrazioni. 

Da quanto riferito sopra consegue che spetta al giudice amministrativo sottoporre i provvedimenti del prefetto a uno scrutinio che sia effettivo e si estenda anche ai fatti alla cui stregua il prefetto formula il proprio giudizio prognostico, non dovendosi riconoscere un ambito di valutazioni ‘riservate’ alla pubblica amministrazione non attingibile integralmente dal sindacato giurisdizionale; ed ancora, la configurabilità degli estremi della colpa dell’amministrazione nell’adozione delle informative antimafia, poi annullate in quanto illegittime, in ragione dell’ampia discrezionalità sopra descritta, dev’essere scrutinata in coerenza con la funzione, con la natura e con i contenuti delle stesse.

Significativa è la parte della motivazione in cui il CGA ricorda che “non si potrà, in particolare, evitare di assegnare il dovuto rilievo alla portata della regola di azione, alla quale devono rispondere i Prefetti nell’esercizio della potestà in questione, che si rivela particolarmente sfuggente e di difficile decifrazione. 

Come si è visto, infatti, il paradigma legale di riferimento, codificato, in particolare, dagli artt. 84 e 91 del d.lgs. n.159 del 2011, resta volutamente elastico, nella misura in cui affida al Prefetto l’apprezzamento di indici sintomatici “…di eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte o gli indirizzi delle società…” (art.84, comma 3, d.lgs. cit.) e, quindi, la formulazione di un giudizio prognostico dell’inquinamento della gestione dell’impresa da parte di organizzazioni criminali di stampo mafioso” (Cons. Stato, sez. III, sent. n. 3707/2015).

Chiaramente, se questi sono i caratteri peculiari dell’attività del Prefetto di cui si discute, non può però sottacersi che la tutela innanzi al giudice amministrativo deve comunque essere assicurata nella sua doverosità ed effettività e, pertanto, il G.A. ha il potere/dovere di annullare tali misure, se illegittime, accogliendo le legittime e fondate richieste di giustizia promananti dai privati.

Bilanciando queste diverse esigenze, il CGA perviene alla conclusione che il beneficio dell’errore scusabile va riconosciuto nelle ipotesi in cui le acquisizioni informative, trasmesse al Prefetto dagli organi di polizia, risultino astrattamente idonee a formulare un giudizio plausibile sul tentativo di infiltrazione mafiosa, in quanto oggettivamente significative di intrecci e collegamenti tra l’organizzazione criminale e l’amministrazione dell’impresa, ancorché vengano giudicate, in concreto, insufficienti a giustificare e a legittimare la misura dell’interdittiva.

Nel caso specifico, peraltro, il CGA ha riportato in motivazione che nell’annullare l’interdittiva antimafia “aggiunge il Tar che emerge, dunque, una oggettiva ed irrimediabile insufficienza motivazionale dell’atto prefettizio, viziato pure da eccesso di potere per contraddittorietà nell’esercizio del potere: pochi anni prima, infatti, la Prefettura appellata risulta aver considerato irrilevanti, ai fini del giudizio di condizionamento mafioso, gli stessi elementi poi viceversa valorizzati in senso negativo per la appellante nell’atto qui gravato”.

Ma, il CGA chiarisce che le emergenze processuali, per la loro oggettiva consistenza, depongono per la sussistenza nella presente fattispecie dell’errore scusabile, che esclude ogni profilo di colpa in capo al Prefetto.

Va dunque esclusa ogni colpa in capo alla Prefettura che non abbia agito con negligenza ed imperizia nell’adottare il provvedimento interdittivo successivamente annullato, con la precisazione che il fatto che la valenza sintomatica del quadro indiziario appaia in seguito stemperata o meno nitida rispetto a quanto le prime avvisaglie investigative facessero ritenere non è un argomento utilmente spendibile e dirimente in sede di giudizio di responsabilità (ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2157 del 2019). 

In altri termini, il risarcimento del danno non costituisce una conseguenza diretta e automatica dell’annullamento giurisdizionale di un atto amministrativo, ma è indispensabile procedere alla verifica sia della lesione della situazione giuridica soggettiva di interesse legittimo (o di diritto soggettivo) tutelata dall’ordinamento, sia del nesso causale tra l’illecito e il danno subito, sia ancora della sussistenza della colpa o del dolo in capo all’amministrazione. 

Conclusioni

Alla luce del disposto dell’art. 2043 c.c. spetta, dunque, al ricorrente l’onere della prova di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito civile: sia dell’elemento soggettivo (dolo o colpa del danneggiante) che dell’elemento oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito).

In merito, poi, all’elemento soggettivo il CGA chiarisce che la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che affinché possa configurarsi la responsabilità aquiliana della P.A. per l’illegittimo esercizio del potere alla illegittimità del provvedimento poi annullato deve associarsi la sussistenza di un quid pluris, identificato nella “rimproverabilità soggettiva” della P.A..

Vale la pena di rammentare che la Corte di Cassazione, con sent. n. 500/1999, ha individuato l’elemento soggettivo configurante presupposto necessario per il riconoscimento della lesione dell’interesse legittimo e, conseguentemente, del risarcimento nella violazione da parte dell’amministrazione come apparato di “regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione”.

Ancora, con la cit. sent., sotto altro profilo, la Suprema Corte ha chiarito che potrà pervenirsi al risarcimento se l’attività illegittima della P.A. abbia determinato la lesione dell’interesse al bene della vita al quale l’interesse legittimo, secondo il concreto atteggiarsi del suo contenuto, effettivamente si collega e che risulta meritevole di protezione alla stregua dell’ordinamento; viene, dunque, in rilievo l’interesse sostanziale al bene della vita proprio del titolare della situazione giuridica soggettiva.

A tal proposito, sono note ed evidenti le implicazioni pregiudizievoli che ha l’adozione di una misura interdittiva antimafia rispetto ad un ampio raggio di diritti soggettivi riconosciuti dalla Carta costituzionale al malcapitato destinatario della misura poi rivelatasi illegittima e da annullare (a titolo esemplificativo, basti il richiamo all’art. 41 della Cost.).

Orbene, il problema sembrerebbe di facile soluzione, in senso favorevole al destinatario della misura rivelatasi illegittima, in caso di interesse legittimo oppositivo, in quanto la declaratoria di illegittimità dell’atto amministrativo dovrebbe essere da sola sufficiente a provare che l’interesse al bene della vita è stato ingiustamente compresso e sacrificato.

Ma, chiosa infine il CGA sul punto affermando che la “rimproverabilità soggettiva” della P.A. deve essere valutata tenendo conto delle norme attributive del potere e delle regole d’azione in ragione delle quali la P.A. agisce al fine di tutelare il bene pubblico individuato dal legislatore, introducendo in parte qua quel concetto di “errore scusabile” rispetto al quale la dichiarata violazione delle “regole di imparzialità, correttezza e buona amministrazione” da parte dell’amministrazione finisce per recedere ai fini della possibile concessione di un giusto risarcimento al destinatario della misura illegittima, seppur già annullata dal G.A., che – a dispetto di quanto deciso erroneamente dalla P.A. – ha provveduto a garantire al privato il riconoscimento del bene della vita al quale l’interesse legittimo nel caso specifico risulta connesso.

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