In questa sezione troverete informazioni che riguardano novità normative o sentenze e decisioni di Tribunali, Corti o altra autorità giudiziaria con profili di particolare pregio e rilevanza.

Da annullare l'interdittiva antimafia emessa senza la preventiva instaurazione del contraddittorio procedimentale, ai sensi dell’art. 92 co. 2 bis del Codice Antimafia

Così afferma il TAR Sicilia, Palermo, Sez. Prima, nella recentissima sentenza n. 380/2025, che ha accolto un nostro ricorso:

 

8.1- Nel nostro ordinamento i principi normati con la legge generale sul procedimento amministrativo hanno una valenza generale e permeano l’insieme dell’agere amministrativo.

Tra i principi generali un rilievo determinante riveste il postulato che il provvedimento finale deve essere frutto di un effettivo contraddittorio

procedimentale che consenta al destinatario di fare valer le proprie ragioni (in chiave difensiva) ed offrire all’Amministrazione (in chiave

collaborativa) ogni elemento utile per addivenire ad un provvedimento che sia il più efficace per la tutela del bene la cui tutela è affidata alla p.a. ed il meno gravoso per la sfera giuridica del destinatario.

Ciò in obbligatoria adesione alle previsioni dell’art. 7 della l. n. 241 del 1990.

Il diritto di difesa è altresì riconosciuto dalle norme multilivello.

Di portata generale e di immediata applicazione è quanto stabilito dall’art. 41 della Carta di Nizza.

“Ogni persona ha diritto a che le questioni che la riguardano siano trattate in modo imparziale ed equo ed entro un termine ragionevole dalle istituzioni, organi e organismi dell'Unione. 2. Tale diritto comprende in particolare: a) il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”.

Anche i provvedimenti di competenza del Prefetto in materia di prevenzione antimafia soggiacciono ai principi generali appena richiamati, non potendosi ritenere che per essi operi una sorta di deroga per materia, in assenza di una specifica disposizione di legge in tal senso, ed in ragione del fatto che i provvedimenti in scrutinio, pur di carattere preventivo e non punitivo, mostrano una capacità afflittiva della sfera giuridica del destinatario che non può essere misconosciuta.

Il d.l. 6 novembre 2021 n. 152 che ha introdotto il comma 2-bis all’art. 92 del Codice antimafia, frutto di una costante evoluzione giurisprudenziale anche multilivello, ha chiarito – superando i dubbi manifestatisi sotto la vigenza della precedente normativa - che i procedimenti finalizzati all’adozione della informazione antimafia non potevano considerarsi esonerati, in ragione della materia, dall’obbligo di rispettare le garanzie partecipative.

E’ infatti nota al Collegio la disputa, sviluppatasi sotto l’egida delle precedenti norme, applicabili alla presente fattispecie ratione temporis, in merito alla possibilità concessa all’Amministrazione di derogare al rispetto della norma che prevede la comunicazione di avvio del procedimento e quindi il realizzarsi del contraddittorio endo-procedimentale.

Ritiene, tuttavia, il Collegio che debba escludersi nella materia in scrutinio una generale e generica possibilità di derogare alle norme ed ai principi ora richiamati, in ragione di una esigenza di celerità in re ipsa che non necessiti di essere motivata.

La deroga al rispetto del principio del contradditorio da parte dell’Amministrazione può trovare legittimazione solo in specifici casi concreti, deve essere frutto di una ragionevole ponderazione degli interessi contrapposti e deve essere adeguatamente motivata.

Le garanzie partecipative possono essere ragionevolmente derogate solo quando la comunicazione di avvio del procedimento potrebbe rendere di pubblico dominio elementi o notizie contenuti in atti di indagine coperti da segreto investigativo o in informative riservate delle forze di polizia che ragioni di opportunità ne sconsiglino la divulgazione.

Tale esigenza deve coesistere con l’esigenza di anticipare il più possibile la tutela della collettività a fronte della capacità della criminalità mafiosa di inquinare il mercato e la convivenza civile.

Forze Armate e nuova liquidazione del TFR con inclusione nella base di calcolo del beneficio dei sei scatti stipendiali contemplati dall'art. 6-bis del decreto legge n. 387/1987

Da una recente sentenza del TAR Sicilia, Palermo, Sez. Terza, n. 111/2024, che ha accolto un nostro ricorso:

 

Tanto premesso, sul riconoscimento del beneficio dei sei scatti stipendiali ai fini del trattamento di fine servizio agli appartenenti a tutte le c.d. Forze di polizia, sia ad ordinamento civile che ad ordinamento militare, si è pronunciato a più riprese il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (cfr., ex multis, 29 dicembre 2022, nn. 1329, 1331, 1326), dalle cui conclusioni (ribadite dal Consiglio di Stato con la sentenza del 23-03-2023, n. 2985) il Collegio non ravvisa ragioni per discostarsi.

Per quanto di interesse in questa sede, il C.G.A.R.S, dopo aver proceduto ad un’analitica ricostruzione dell’evoluzione normativa in materia, ha chiarito, in sintesi, che:

i- l’art. 1, comma 15-bis, del d.l. 16 settembre 1987, n. 379, ha esteso il beneficio dei sei “scatti” «ai sottufficiali delle Forze armate, compresi quelli dell’Arma dei carabinieri e del Corpo della guardia di finanza sino al grado di maresciallo capo e gradi corrispondenti, promossi ai sensi della legge 22 luglio 1971, n. 536, ed ai marescialli maggiori e marescialli maggiori aiutanti ed appuntati», ma nel solo caso di cessazione dal servizio per età o di inabilità permanente o di decesso, con esclusione dell’ipotesi di cessazione dal servizio a domanda;

ii -la norma tuttavia deve ritenersi ormai abrogata dall’art. 2268, comma 1, n. 872), del C.o.m (che nell’abrogare espressamente l’art. 11 della legge 8 agosto 1990, n. 231, che lo ha novellato, non ha disposto la reviviscenza della precedente previsione contenuta nella formulazione originaria dell’art. 1, comma 15-bis), sicché il richiamo alla stessa come disciplina speciale applicabile agli appartenenti alla Guardia di finanza operato dal primo non è in alcun modo conferente;

iii- ritenuti abrogati l’art. 1, comma 15-bis del d.l. n. 379/1987 e l’art. 11 della l. n. 231/1990, ben si comprende perché l’art. 1911, comma 3, del C.o.m. lasci fermo, per tutte le forze di polizia, l’art. 6-bis del d.l. n. 387/1987 che, nel quadro della progressiva omogeneizzazione del trattamento economico e previdenziale di tutto il personale del comparto sicurezza, ha esteso l’istituto dei sei scatti «al personale della Polizia di Stato appartenente ai ruoli dei commissari, ispettori, sovrintendenti, assistenti e agenti, al personale appartenente ai corrispondenti ruoli professionali dei sanitari e del personale della Polizia di Stato che espleta attività tecnico-scientifica o tecnica ed al personale delle forze di polizia con qualifiche equiparate»;

iv- quanto all’ambito soggettivo di applicazione dell’art. 6-bis del d.l. n. 387/1987, la nozione di forze di polizia, ivi richiamata, è stata intesa in senso ampio e si delinea anche in ragione dello scopo del medesimo decreto (cfr. art. 1) di estendere i benefici economici previsti dal d.P.R. 10 aprile 1987, n. 150- di attuazione dell'accordo intervenuto in data 13 febbraio 1987 tra il Governo e i sindacati del personale della Polizia di Statoall’Arma dei carabinieri, al Corpo della guardia di finanza, al Corpo degli agenti di custodia e al Corpo forestale dello Stato, che, del resto, compongono le forze di polizia ai sensi dell’art. 16 della legge 1 aprile 1981 n. 121 (cfr. C.G.A.R.S., 29 dicembre 2022, n. 1131);

v- quanto all’ambito oggettivo di applicazione, ai sensi dell’art. 6-bis, comma 2, del d.l. n. 387/1987 il beneficio in questione deve essere riconosciuto «al personale che chieda di essere collocato in quiescenza a condizione che abbia compiuto i 55 anni di età e 35 anni di servizio utile», sicché anche la cessazione del servizio a domanda fa sorgere il diritto al beneficio, in presenza del duplice presupposto rappresentato dall’anzianità anagrafica e retributiva.

Si è altresì precisato che “l’inosservanza del termine del 30 giugno, di cui al citato art. 6-bis, comma 2, per presentare domanda di collocamento in quiescenza, non comporta alcuna conseguenza decadenziale poiché il rispetto del termine del 30 giugno, infatti, è funzionale a consentire la decorrenza del collocamento a riposo a partire dal primo gennaio dell’anno successivo” (Cons. Stato Sez. II, Sent., 23-03-2023, n. 2985).

L’applicazione delle richiamate coordinate giurisprudenziali al caso di specie conduce al riconoscimento del beneficio in questione nei confronti del signor -OMISSIS- -OMISSIS-, in quanto in possesso dei requisiti soggettivi e oggettivi per il riconoscimento del beneficio. Il menzionato ricorrente è infatti ex appartenente ad una forza di polizia, ad ordinamento militare – l’Arma dei Carabinieri – che, al momento di collocamento in congedo, era in possesso dell’anzianità anagrafica e contributiva richiesta dall’art. 6-bis del d.l. n. 387 ai fini del riconoscimento del beneficio in esame.

Dunque, il ricorso deve essere accolto con conseguente accertamento del diritto del ricorrente al beneficio dei sei scatti stipendiali ai fini della determinazione del TFS.

DIFFAMAZIONE E DIRITTO DI CRITICA

In materia di diffamazione l'esercizio del diritto di critica non può prescindere dal rispetto dei limiti della continenza formale e della verità putativa dei fatti attribuiti.

 

Secondo un'interessante pronuncia della Suprema Corte di Cassazione l'esercizio del diritto di critica può ritenersi lecito quando sia guidato dalla ragionevole convinzione soggettiva che i fatti corrispondano a verità, mentre non è configurabile se non è suffragato da fatti obiettivamente riscontrabili e bilanciato dal requisito della verità putativa. In questo senso il giudizio di liceità sull'esplicazione del diritto di critica si estende in concreto alla verifica del carattere non veritiero o meno, anche solo in termini di verità putativa, dei fatti attribuiti.

 

Cassazione penale, Sez. III, ordinanza n. 9799 del 9/04/2019

 

LAVORO PRECARIO E TUTELA DEL LAVORATORE

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, SEZIONE LAVORO, N. 4943 DEL 2024

 

PUBBLICO IMPIEGO – Tutela del lavoratore precario – Esonero dall’onere probatorio del danno e del nesso causale – Contratti a termine nulli per mancanza di forma scritta – Danno comunitario – Stipulazione di un valido contratto di lavoro – Principio di effettività nella tutela del lavoro precario –Tutela meramente risarcitoria – Pagamento di un’indennità forfettaria – Indennità che prescinde dalla prova del danno – Possibilità di provare un danno maggiore.

 

La tutela del lavoratore precario nell’ambito del lavoro pubblico contrattualizzato, come sancita nella sentenza n. 5072/2016 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione – e, in particolare, l’esonero dall’onere probatorio del danno e del nesso causale nella misura e nei limiti di cui all’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 – non vengono meno nel caso in cui i contratti di lavoro a termine siano nulli per mancanza di forma scritta ai sensi degli artt. 16 e 17 del R.D. n. 2440 del 1923, in quanto in mancanza di forma scritta si realizza anche la violazione delle norme sulla specificazione della causale o di certezza dell’assetto temporale del lavoro a termine che sono funzionali, nel diritto interno, all’esigenza antiabusiva di cui all’art. 5 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva 1999/79/CE.

Il c.d. «danno comunitario», infatti, nella misura forfettaria indicata dall’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010 non presuppone la stipulazione di un valido contratto di lavoro, nel quale venga illegittimamente fissato un termine finale di durata, ma opera anche nel caso di nullità dello stesso contratto di lavoro. Le norme per la protezione del lavoro a tempo determinato contenute nel d.lgs. n. 368 del 2001 di attuazione della direttiva 1999/70/CE (così come quelle ora scritte nel d.lgs. 81 del 2015) si applicano anche ai rapporti di lavoro instaurati con le pubbliche amministrazioni su tutto il territorio nazionale, comprese le ragioni a statuto speciale. Il fatto che un contratto di lavoro non sia stato stipulato «ai sensi del d.lgs. 368/2001» nulla toglie alla necessità di applicare le norme di legge imperative che disciplinano quel rapporto (Nel caso di specie il contratto era stato stipulato sulla base della legge regionale siciliana n. 16 del 1996).

Ciò posto, il risarcimento del c.d. «danno comunitario» rappresenta, sul piano giurisprudenziale, la realizzazione del principio di effettività nella tutela del lavoro precario, imposta dal diritto dell’Unione Europea, contemperandolo con la regola di diritto interno – e di rango costituzionale (art. 97, comma 4, Cost.) – per cui «Agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi previsti dalla legge». Tale regola impedisce di applicare ai dipendenti degli enti pubblici non economici la tutela – sicuramente adeguata sul piano della effettività e applicabile nel lavoro privato – della trasformazione del rapporto (illegittimamente) a termine in rapporto di lavoro a tempo indeterminato. L’alternativa tutela meramente risarcitoria rischia, invece, di non essere una tutela sufficientemente efficace (e, quindi, un’effettiva attuazione dei principi eurounitari), qualora governata dalle comuni norme sulla ripartizione degli oneri probatori, che impongono al lavoratore di allegare e provare in modo specifico il danno subito e il suo nesso causale con il rapporto di lavoro. Per questo, si è ritenuta misura doverosa, nel diritto interno, il riconoscimento al lavoratore, in caso di abusiva reiterazione di contratti a termine, del diritto al pagamento di un’indennità forfettaria, in misura variabile tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, che prescinde dalla prova del danno, ferma restando la possibilità per il lavoratore di provare di avere subito un danno maggiore.

In mancanza di una previsione del contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro avente ad oggetto il riconoscimento di un corrispettivo per la perdurante disponibilità del lavoratore a rendere la prestazione in qualsiasi momento, nel corso dell’anno solare, non è ravvisabile una violazione dell’art. 36 Cost., secondo cui «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro». Invero, il fatto di poter essere chiamato, nel corso dell’anno, a seconda delle esigenze del datore di lavoro non comporta una prestazione di lavoro aggiuntiva (essendo una contraddizione in termini che questa possa consistere in un mero non facere), ma rappresenta soltanto una modalità in cui si estrinseca il rapporto.

Cassazione Penale, Sez. 6, Sentenza n. 37340 del 13/09/2023

RINNOVAZIONE DELL'ISTRUTTORIA IN APPELLO - PROVA DICHIARATIVA - DIVERSA INTERPRETAZIONE DELLE RISULTANZE DELLE PROVE DICHIARATIVE - CONTRASTO VALUTATIVO TRA IL TRIBUNALE E LA CORTE D'APPELLO - OMISSIONE - CONSEGUENZE

 

Il ricorso è fondato con particolare riferimento alla diversa valutazione dei contenuti delle deposizioni rese dalle persone offese, costituitesi parti civili, in ordine alla certa presenza o meno di altri soggetti nel mentre venivano profferite le espressioni ingiuriose da parte dell'imputato.

Su questo punto - assolutamente decisivo ai finid ella configurabilità del delitto di cui all'art. 341-bis cod. pen. nella sua attuale formulazione - si registra un netto contrasto valutativo tra il Tribunale e la Corte di Appello che avrebbe imposto la rinnovazione della istruttoria dibattimentale, dovendosi al riguardo richimare il seguente principio di diritto: "Ai fini della rinnovazione dell'istruttoria in appello ex art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen., per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa devono intendersi non solo quelli concernenti la questione dell'attendibilità dei dichiaranti, ma tutti quelli che implicano un a "diversa interpretazione" delle risultanze delle prove dichiarative, posto che un fatto non sempre presenta una consistenza oggettiva di natura astratta e asettica, ma è talvolta mediato attraverso l'interpretazione che ne dà il dichiarante, con la conseguenza che la risultanza probatoria risente di tale mediazione che incide sull'approccio valutativo del giudice, anch'esso pertanto mediato (sez. 5 n. 27751 del 24/05/2019, O., non mass.)".

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